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E’ un tempo di stasi e al contempo di passaggio. Lo sappiamo.

Occorre pensare e ri-pensarsi, quasi ri-fondarsi, ripensare alla propria base, alle proprie fondamenta. Pensare è diventato però difficilissimo: Matteo, che negli ultimi mesi ci sta aiutando nella comunicazione, dice che ‘è come avere la testa nella melassa’. Effettivamente è stata questa la nostra sensazione di fronte alla notizia dello stop, della pandemia, del distanziamento sociale diventato necessario.

Il teatro nasce come cerchio, come vicinanza, come scambio, come rito di condivisione. È presenza. Esiste solo nel qui e ora della relazione. Come possiamo fare adesso? Come comportarsi adesso che, qui e ora, quella relazione, quello scambio fatto di vicinanza e quel rito fatto di corpi non possono esserci? 

E ancora: come possiamo fare adesso se già prima il teatro (piccolo o grande che fosse, ma quello piccolo di più) stava già poco bene?

Qualcuno dei nostri colleghi ha reagito sulla rete, qualcuno ha occupato il suo tempo in studio e letture solitarie, qualcuno ha pensato a piattaforme per teatro in video, qualcuno ha fatto dirette su Facebook e su Instagram provando a spostare lì la sua concentrazione e attività, qualcun altro gli ha abbaiato contro per questo.

Altri ancora si sono dedicati alla ricerca di nuovi finanziamenti o nel recupero dei denari persi. Per alcuni sono sicuramente nate nuove idee; altri hanno messo la parola fine a tanti progetti. Noi siamo ancora in una fase di ri-orientamento (e si, siamo più lenti di altri ma è una nostra caratteristica e, forse, essere così ci piace anche un po’). Stiamo solo cercando di capire, stringiamo i denti. Andiamo e andremo avanti per tentativi; proveremo a capire e a stare.

Una delle prime reazioni, per noi, è stata quella di pensare alla radio. E abbiamo registrato tre racconti dedicati alla memoria delle donne di una Valle. Avevamo un progetto in corso con le scuole primarie e ci sono venute in mente le storie della sera, quelle che ascoltavamo nel giradischi prima e nel walkman poi. Con Elisa Occhini, con cui da un paio di anni collaboriamo stabilmente per il progetto delle Valli di Lanzo, ci siamo subito detti: “Ti ricordi le audiostorie di A mille ce n’è?”. Certo, come dimenticarlo; consumavamo le cassettine.

 La voce registrata, curata e musicata può essere stupenda; in passato il radiodramma  lasciava immaginare ambienti, scenografie, corpi. I podcast, ammettiamolo, erano tornati di moda giusto in tempo prima della pandemia. Il teatro è anche questo: mutare, immaginare, re-inventare. Solo che ci manca l’esserci, l’essere in teatro, essere teatro. Perché il teatro ‘in presenza’ è altro e quell’altro, oggi, non può esserci.

Come dicevamo sopra, però, non ci stiamo arrendendo. Abbiamo fatto lunghe riunioni su Zoom, su Skype, su WhatsApp, su qualunque mezzo consentisse una relazione a distanza, una discussione, un incontro e un dialogo tra “teste nella melassa”. Abbiamo parlato per capire insieme quali soluzioni ci assomigliassero di più. E non abbiamo ancora finito di parlarne. Abbiamo abbassato insieme (solo col pensiero, naturalmente) la serranda di bild, lo spazio con vetrina su strada in cui, negli ultimi anni, abbiamo trovato scrivanie per scrivere, nutrimento per immaginare e spazio per fare prove ed esistere.

Chissà cosa significherà quella serranda abbassata su Via Lombroso? La saracinesca del parrucchiere è giù, lo è quella del Bar Imperfetto, all’angolo.

Chissà cosa si chiede la gente che passa da lì oggi che è tutto chiuso:

“Non posso andare a tagliare i capelli perché il parrucchiere è chiuso; non posso bere il caffè di Pino, perché il bar è chiuso, non posso ……. cosa non posso fare se bild è chiuso?”

Ecco il dubbio, il domandone: cosa manca a tutti, a noi, alle persone, ai cittadini, ai passanti, se si abbassano le serrande degli spazi della cultura? Se si abbassano le serrande del teatro, dell’architettura, dell’arte pubblica, dei fotografi? Cosa manca se si abbassano le serrande delle storie?

 I primi giorni di quarantena abbiamo letto e studiato tanto o almeno ci abbiamo provato. 

Giulia dice che il teatro le sta mancando moltissimo e ha continuato a fare memoria di alcuni testi per spettacoli nostri che salteranno, che sono saltati. Ma che non riusciamo a considerare “fermi” o “cancellati”. 

Chiara, che si era quasi arresa tra bandi e progettazioni impossibili (sempre presa dall’ansia delle consegne, dei soldi che non arrivano, della richiesta fondi, del finanziamento per esistere…tutte cose che a volte demoralizzano al punto da togliere spazio al senso del teatro che ci eravamo immaginati) ha ripensato alla sua resa – iniziata ben prima della pandemia mondiale –  e si è detta: “Ma proprio ora che la sfida è così ‘sfidante’ devo mollare? Fatemi progettare, datemi un form da completare, non sia mai…”

 Daniela, con l’aiuto dell’altra Daniela (perché in associazione abbiamo tante Daniele), ha portato avanti tutti i calcoli per presentare ai soci la chiusura di bilancio e – per la prima volta – l’assemblea è stata fatta online e si è approvato, a distanza, il consuntivo 2019 e il preventivo 2020. Ci siamo fatti una serie di screenshot con i soci, tutti con il pollice alzato, come per dire: “Sì, abbiamo approvato all’unanimità” e, lo ammettiamo, ci siamo sentiti vicini.

Con Federica di Pentesilea continuano anche, quasi quotidiane, le telefonate: discutiamo dei progetti interrotti, cerchiamo di capire come trasformarli per non perderli. In ogni telefonata prima del classico “Ciao, a domani” ci diciamo quanto sarebbe bello che quel “domani” fosse di persona, insieme, per continuare a progettare pensieri e azioni guardandosi negli occhi.

Ma quando torneremo a sudare insieme? A discutere di una regia? Quando torneremo a prenotare i nostri spazi per le prove? E a parlare a una sala mezza vuota (perché, diciamolo, le sale spesso, tanto spesso, erano mezze vuote) quando torneremo?

 Dopo il quando, c’è anche il come. Come ci saranno di nuovo laboratori con i bambini abbracciati in un nodo di corpi che giocano al teatro; come potremo essere di nuovo a recitare in un Cimitero, in quella preghiera collettiva che diventa narrazione e canzone di vita? Come berremo nuovi caffè, vicini, scrivendo e cancellando righe da uno stesso copione?

 Ovviamente siamo sommersi di domande da fare (agli altri e a noi stessi) e non abbiamo risposte. È retorico? Forse, ma siamo qui, siamo così.

Vogliamo tornare ad alzare le serrande ma non come prima, non da arrabbiati. Non da arresi. Vorremmo non doverci accontentare. Vorremmo lavorare più di prima, raccontare più di prima. Esserci. Esserci per ascoltare e capire davvero cosa dicono i passanti davanti alla saracinesca abbassata: “Non posso andare a tagliare i capelli perché il parrucchiere è chiuso; non posso bere il caffè di Pino, perché il bar è chiuso, non posso… Cosa non posso fare se l’arte ha chiuso?”